Il mio percorso di studio con Dora Maria Kalff
Dora Kalff usava un modo di insegnare, di sfogliare le pagine del suo sapere e quindi di fare teoria che era rivolto non tanto verso l’esposizione di concetti teorici razionalmente acquisiti, ma orientava il suo insegnamento verso campi sperimentali nuovi, dove i concetti e le nozioni si animavano e si espletavano non attraverso il dire, ma attraverso il fare. Un fare dinamico che coinvolgeva la totalità dell’essere in un’azione sperimentale continua e da cui scaturiva un’ulteriore rielaborazione sia dei concetti che delle nozioni.
Con un approccio di una mente svuotata dai processi di pensiero dell’Io, attraverso un “fare vuoto”, come lo definisce Dora Kalff quando parla di uno spazio in cui viene ad arrestarsi il predominio della volontà, del sapere e della ragione attiva per poter essere nella condizione di sentire la realtà, ciò che appare, ciò che accade intimamente ed esternamente, nella sua intensità e profondità, per cercare insieme al visibile l’invisibile, di sentirlo nel senso di farlo risuonare nel cuore dell’affettività dove lavorano tutti i sensi, sia interni che esterni.
Una dialettica costante tra il qui e ora in cui la teoria si perdeva e si ritrovava nelle vie dell’esperienza intima e profonda. Un insegnamento “dialogante” coinvolgente, aperto, creativo, ricco di varianti ed infinite possibilità, come un dare forma e sembianze a un sapere che si evidenziava a chi ascoltava con parole vestite di emozioni, attese, ascolto, accoglienza e compartecipazione, in un contesto in cui i ruoli si mescolavano e si alternavano in uno spazio relazionale di apprendimento in continua evoluzione e approfondimento. Un modo di trasmettere la conoscenza alla vecchia maniera, direttamente attraverso la trasmissione orale, proprio come gli antichi maestri, un modo vivo e palpitante di divulgare la conoscenza.
Dora Kalff non amava scrivere, come se lo scrivere mortificasse quella creatività ricca e vivificante sempre nuova, diversa, quel sentire sottile e leggero che mal si adatta all’imprigionamento delle parole, ma che trova nel “fare della psiche” le possibili vie di espressione conservando tutte le sue potenzialità. Un mettere in evidenza che l’an
Per Dora Kalff il “fare esperienza”, era alla base di ogni sua azione, con l’infinita capacità di esperire si poneva nella vita, nell’insegnamento e nel suo lavoro.
Perché la nostra anima sia libera dice Hillman c’è sempre bisogno di una prova da superare, un fuoco da attraversare, un ostacolo da scavalcare. L’anima ha sempre qualcosa da “fare”, qualcosa da sperimentare per liberarsi dalle catene dell’ignoranza.
L’esperienza quindi come aria infinita di conoscenza, di sapere e di comprensione, ma per poter fare esperienza bisogna che ci siano le condizioni interiori necessarie per far si che essa possa attuarsi, è in questo senso che “il fare vuoto” di cui parla Dora Kalff ha una rilevanza fondamentale, è in uno spazio vuoto, in un dentro oscuro, segreto e misterioso che può determinarsi un ingresso nel “non manifesto” senza cercare di capirlo né di afferrarlo, poiché non ha consistenza, ma che consente ad ogni altra cosa di esistere, è lì che l’esperienza si veste di colori, di emozioni, prende forma e si realizza.
Nella metodo del “Gioco della sabbia”, Dora Kalff sperimentò e sviluppò una modalità di lavoro analitico orientata sul “fare”, una modalità diversa da quella usualmente utilizzata nel setting, resa possibile proprio dalla particolarità del metodo che sposta l’attività terapeutica dalle parole al fare, senza negare ovviamente il suona alla voce che a sua volte ha i suoi spazi e la sua importanza, ma ciò che più catturava l’attenzione era proprio quel suo fare profondo e coinvolgente, che è stato il filo conduttore di tutta la sua ricerca e che la portarono a sviluppare un qualcosa che permettesse all’altro di raccontarsi attraverso il fare esperienza della sua realtà psichica facendo.
Dora Kalff era senza dubbio una ricercatrice anomala nel suo sperimentare nuove vie per esplorare quel continente sconosciuto, quel mondo simbolico immaginale che rende ragione della processualità dell’inconscio, delle qualità guaritrici del Sé in un contesto relazionale completamente nuovo. È stata proprio questa innovazione teorica, intesa come teoria-pratica, con cui procedeva nella sua ricerca che l’ha resa così originale.